Con un articolo su Il Fatto Quotidiano il sindacalista e saggista riflette sulle due facce del giornalismo di oggi alla luce dello stop a Massimo Giletti su La 7
Quanto ci deve far riflettere il caso di "Non è l'Arena", la trasmissione condotta da Massimo Giletti che La7 ha deciso improvvisamente di sospendere? Da diversi giorni si rincorrono ipotesi e motivazioni, dichiarazioni da una parte e dall'altra, si commentano le decisioni a favore o contro una tv che forse non dimostra il coraggio che serve, ma viene fuori anche lo stato attuale di un mestiere come il giornalismo. Savino Balzano, sindacalista, saggista e autore nel blog La Fionda, da sempre impegnato sul fronte del lavoro, in un articolo su Il Fatto Quotidiano, analizza il caso di Massimo Giletti, e non per ritornare al solito discorso delle bocche cucite e di una stampa ancora troppo vincolata, ma per parlare del quasi tramonto di una professione che dovrebbe contribuire, invece, a fare chiarezza su tante cose nel nostro paese.
La vicenda di Massimo Giletti - scrive Balzano nell'articolo- consente di fare una rapidissima riflessione circa la condizione, per come la vedo io miserrima, nella quale versa il giornalismo di questo Paese. Ci vantiamo di essere democratici, civili, evoluti: la verità è che ogni qualvolta una voce prova a discostarsi dal racconto di massa, dalla propaganda di regime del politicamente corretto, una certa nomenclatura comincia a sbracciarsi, affannosamente, nel tentativo di rappresentare i disobbedienti come populisti, qualunquisti, violenti, vichinghi all’assalto di Capitol Hill.
Lo abbiamo visto durante la crisi sanitaria, col mondo artatamente diviso tra gente civile e bercianti no-vax; durante i mesi del governo di San Draghi, durante il quale gli stessi giornalisti che oggi urlano all’autoritarismo meloniano si spellavano le mani per applaudire il capo del governo, piuttosto che rivolgergli delle domande; lo vediamo durante la crisi internazionale, oggi, mentre ogni voce dissidente (anche quella di Francesco) diventa putiniana.
Personalmente penso - si legge sempre nell'articolo- che il giornalismo italiano in questa fase si divida in due grandi categorie: quello che racconta i fatti e quello che crea i fatti. Il primo si muove in pendente salita, affannato, percorrendo sentieri stretti e irti di ostacoli. Il secondo prolifica, come la gramigna.
Durante una Festa dell’Unità, a Bologna, circa una settimana prima delle ultime elezioni politiche, una ragazzina di 15 anni è stata brutalmente stuprata da un branco, filmata e irrisa. Sul fatto un silenzio assordante durato 200 giorni. Finalmente la notizia, riportata da poche testate, è venuta timidamente alla luce e francamente, ingenuo, mi aspettavo uno scandalo: ho ripensato a tutte le polemiche sollevate in occasione del raduno di quegli alpini a Rimini o ai tg che ossessivamente ci raccontavano di quella brutta storia che coinvolse il figlio di Beppe Grillo.
C’è dunque un giornalismo che parla di fatti- conclude Savino Balzano- credo che Giletti ne fosse un esponente, con i ragazzi che lavoravano con lui (credo adesso a spasso), spesso deriso e sbertucciato (lo fa Parenzo quasi ogni giorno sfottendo Giordano, Del Debbio, Porro, Cruciani) e può piacere o non piacere la chiave interpretativa che di quei fatti viene fornita, ma si tratta pur sempre di fatti, come quelli raccontati da Report o da Presa Diretta. E poi c’è un giornalismo che corre in discesa, quello che crea i fatti, che concorre a imbastire e ricamare la trama della narrazione dominante, gerarca della dittatura del politicamente corretto, ossessivo e ferocemente antidemocratico. Leggi l'articolo integrale su Il Fatto Quotidiano
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