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Le epoche italiane segnate dalla televisione. Il nuovo libro di Aldo Grasso

Immagine del redattore: Ogni GiornoOgni Giorno

(fonte Corriere della Sera-Articolo di Paolo Mieli)

Può un’enciclopedia in tre volumi (di mille e quattrocento pagine) trasformarsi in un piacevole libro di lettura? Sì, se l’autore è dotato di cultura e buona capacità di scrittura. La Storia critica della televisione italiana di Aldo Grasso (con la collaborazione di Luca Barra e Cecilia Penati, il Saggiatore) è da assaporare predisponendosi a leggerlo per intero. Grasso segue dichiaratamente le orme di John Ellis che suddivide la storia della televisione in tre grandi epoche: l’età «della scarsità», quella «della disponibilità» e quella «dell’abbondanza».


La prima, che inizia negli anni Cinquanta è la stagione in cui la tv — in mano qui in Italia a una élite fanfaniana (con innesti liberali) guidata da Ettore Bernabei — «rispecchia lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolge a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchio». Poi l’immenso successo di Lascia o raddoppia? amplia smisuratamente il pubblico. È Mike Bongiorno, il mago venuto dagli Stati Uniti, l’uomo che cambia la storia della televisione. La trasforma in qualcosa di familiare anche per chi non possiede un televisore e segue il suo programma nei bar. Dopo di lui, Mario Riva ripeterà l’«operazione Bongiorno» con Il Musichiere. Sarà poi la volta di Campanile sera con Enzo Tortora. Di questo ampliamento del pubblico beneficeranno Mario Soldati con il Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini oltreché il duo Salvi e Zatterin con la «Donna che lavora». Il definitivo sfondamento arriverà con lo show di Sacerdote e Falqui Studio Uno («di rara eleganza espressiva», annota Grasso) e alcune eccellenze della comicità: Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello in Un, due, tre, Vittorio Gassman nel Mattatore, Walter Chiari, Gino Bramieri. Assai innovativo sarà Senza rete di Enzo Trapani, fondamentale per le carriere di Enrico Montesano, Oreste Lionello e Paolo Villaggio. Il tutto arricchito dagli «sceneggiati» di Sandro Bolchi e Anton Giulio Majano ( tra i principali protagonisti: Alberto Lupo), dalle divertenti «inchieste» di Enzo Biagi, Ugo Gregoretti e Nanni Loy, dallo sport (da Processo alla tappa a Novantesimo minuto), da presentatori del calibro di Corrado, Enza Sampò e, già sul finire di questa era, un giovane Pippo Baudo.

La seconda epoca viene fatta «simbolicamente» partire dai Promessi sposi del 1967. Nei panni di Lucia, la giovanissima Paola Pitagora ha un successo strepitoso. È il momento in cui c’è un televisore (quasi) in ogni famiglia. Grandi protagonisti dello svecchiamento in questo trentennio, Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Angelo Guglielmi, Raffaella Carrà, Sandra Mondaini, Maurizio Costanzo, Sandro Curzi, Piero Angela (sulle cui orme si muoverà, in tempi successivi, il figlio Alberto). A partire dalla metà degli anni Settanta si affiancherà alla Rai la tv di Silvio Berlusconi che però si avvarrà prevalentemente di «importazioni» dalla televisione pubblica. In compenso il berlusconiano Drive In di Antonio Ricci viene considerato da Grasso «l’unico vero varietà innovativo degli anni Ottanta»; su Drive In, ricorda Grasso, a suo tempo la critica si divise tra il giudizio di Giovanni Raboni (positivo) e quello di Umberto Simonetta (critico). Aveva ragione Raboni. Grasso non è indulgente con Maurizio Costanzo, a cui concede però di aver dato vita, con Bontà loro, al «prototipo di un fenomeno destinato a dilagare e a diventare modello di ogni discorso televisivo: il bisogno di confessarsi». Al Costanzo intervistatore Grasso riconosce il merito di aver imparato (e insegnato) a documentarsi sugli ospiti così da essere «pronto a giocare a sorpresa» quando intuiva che un invitato stava «bluffando». Del tutto positivo è invece il giudizio sullo straordinario Beppe Viola.

Tre quarti dei volumi di Storia critica della televisione italiana sono dedicati — ovviamente — a trasmissioni di spettacolo e di sport, il core business della tv pubblica e privata. Ma non vengono trascurati — ed è un pregio dei tre volumi — i programmi a carattere giornalistico. Al Bruno Vespa di Porta a porta, già direttore del Tg1, viene riconosciuto di essere riuscito ad avvicinare il grande pubblico al Palazzo, facendo conoscere i politici come fossero «vicini di casa».

Il Giovanni Minoli di Mixer che «introduce, collega i servizi e sostiene il velocissimo e frammentato ritmo della trasmissione» è parso a Grasso un modernizzatore del linguaggio televisivo.

Altrettanto forte è considerata la personalità di Giuliano Ferrara. Nel novembre 1987 parte il suo Linea rovente, una sorta di «paradossale processo televisivo» (ideato da Lio Beghin e curato da Anna Amendola). Ferrara inaugura una «formula che diventerà cifra stilistica: la spettacolarizzazione del dibattito condotto con ostentata aggressività, l’inchiesta giornalistica sviluppata in forma di talk show


Buona è la considerazione dell’autore della Storia critica della televisione italiana nei confronti di Lucia Annunziata e della sua Linea 3 (da un’idea di Giovanni Tantillo). Alle prese con opinioni e fatti, «Annunziata dimostra la capacità di cogliere subito il succo della questione, di sfrondare i problemi della verbosità superflua, di incalzare gli ospiti con pertinenza e con domande dirette in stile quasi radiofonico

L’autore ha un buon giudizio nei confronti di Serena Dandini la quale, dal 1989, con La tv delle ragazze assieme a un «allegro gineceo» (prime tra tutte, le coautrici Valentina Amurri e Linda Brunetta) ha però il «vizio di sentirsi più intelligente del suo pubblico».

La terza stagione, dal 2000 ai giorni nostri, è quella in cui in ogni casa c’è più di un televisore (assieme a computer, tablet, smartphone). Sul teleschermo è il momento di nuovi giganti: Fiorello, la Gialappa’s, Maria de Filippi, Paolo Bonolis, Gerry Scotti. Grasso è interlocutorio nei confronti di Fabio Fazio, al quale riconosce di essersi saputo conquistare un grande prestigio tanto da aver potuto determinare il successo di libri e altri prodotti culturali e mediali «con una sola ospitata» a Che tempo che fa. Di Giovanni Floris Grasso ricorda che agli inizi di Ballarò aveva «l’aria del bravo ragazzo, politicamente corretto, moderato, demagogico quanto basta, un peso leggero» con il difetto «di parlare un po’ troppo, interrompere di continuo gli ospiti togliendo alla discussione passionalità e chiarezza». Ma gli riconosce di aver poi fatto crescere la trasmissione fino a farla diventare «un punto di riferimento settimanale del dibattito politico». Buono è il suo giudizio su Lilli Gruber. Idealmente questa terza stagione della tv vien fatta partire dal Grande Fratello. Condotto da Daria Bignardi, capace di «raffreddare una materia già incandescente», il Grande Fratello pone lo spettatore al cospetto di un laboratorio multiforme e multimediale in cui «ad ogni pubblico corrisponde una modalità di fruizione». Per molti quel programma «è un gioco di società (e di ruolo), un divertimento da spartire con i colleghi d’ufficio»; per altri «una soap opera senza trama, un talk senza conduttore padre padrone, un flusso di coscienza che finalmente si sposa con il flusso televisivo, un notevole salto in avanti della tv»; per altri ancora «una fucina di mascalzonate da svergognare in pubblico». Tutte (o quasi) le trasmissioni dall’inizio di questo millennio hanno «rubato» qualcosa al Grande Fratello. Magari inconsapevolmente. Questo e moltissimo altro si scopre leggendo il libro di Grasso. Si raccomanda la pazienza e la delibazione pagina dopo pagina. Il godimento è assicurato.

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